Lama VI R – Un’esistenza impossibile (prima parte)

Ma è giunta, ormai, l’ora di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada a miglior sorte, nessuno lo sa, tranne il dio.”

Socrate

Qui giace Jackob Tod.

Il destino racchiuso nella semplicità di una parola sola. Quel destino scritto sulla sua pelle, dalla tela delle parche, lo avvolgeva come il guscio di una noce da quando era nato. Lui stesso era consapevole di trovarsi chiuso in un fragile involucro e non fu mai in grado di uscirvi, rimase isolato fino alla fine dei suoi giorni, solitario e schivo, pochi amici ed un carattere irruento con sulle spalle il peso di un mondo angoscioso e ingestibile.

Jackob Tod, il suo ultimo atto violenza fu rivolto verso colui che più odiava: sé stesso.

Infanzia

Visse i suoi primi anni in un piccolo paesino sulle montagne austriache dove aveva passato la maggior parte della sua infanzia, turbolenta e fuori controllo. Un bambino difficile e solitario. Durante le elementari non parlava con gli altri ragazzini, passava la maggior parte del tempo in solitudine, immerso in un suo mondo immaginario. I suoi contatti con i coetanei erano infrequenti e nella maggior parte dei casi ferocemente conflittuali.

Nei primi anni delle elementari un bambino più grande di lui di alcuni anni, Victor, figlio dei due negozianti del paese, gli si avvicinò mentre stava disegnando e gli strappò il foglio su cui stava scarabocchiando. Lo fece per puro dispetto e per esercitare la sua cara prepotenza nei confronti di quel gracile bambino, che se ne stava seduto sopra un tavolino di pietra ricoperto di muschio, a disegnare sopra dei fogli ingialliti e sporchi di colori. Benché prevalentemente costituito da una massa molliccia di adipe, la mole del piccolo bullo in erba era decisamente maggiore di quella della sua vittima. Non era il primo bambino che prendeva di mira con le sue cattiverie e tutti ne avevano un certo timore: si aggirava sempre per i corridoi nell’ora di intervallo spadroneggiando come un piccolo tiranno obesotto, con quelle sue guance gonfie e i suoi riccioli neri.

Fino a quel momento, nessuno aveva mai messo in dubbio il suo ruolo consolidato di piccolo leader della scuola.

Quando Jackob vide Victor strappare il foglio su cui aveva appena finito di disegnare l’albero di noce che vedeva fuori dalla finestra di casa sua, ebbe un’improvvisa esplosione di rabbia incontrollata. Il volto gli divenne rosso e tremolante alcuni istanti prima di saltare sopra il tavolo che si frapponeva tra loro.

Si avventò sul bullo facendolo cadere a terra.

Questi dapprima iniziò a dibattersi fendendo pugni in aria, cercando di sopraffare quella che pensava fosse una gracile vittima; quando vide i suoi tentativi andare a vuoto, cercò di rimettersi in piedi per difendersi meglio e organizzare subitaneamente una controffensiva efficace. Non ci riuscì e fu costretto a rigirarsi sulla schiena per fuggire. Jackob balzò su di lui e iniziò a picchiare ripetutamente e in maniera scomposta sulle sue spalle e sulla nuca. Victor cercò di ancorarsi al terreno con le mani per trascinarsi in avanti, lontano da quella furia. Jackob gli stava seduto sulla base della schiena e lo teneva fermo, usando i pugni chiusi per colpirlo.

Si rese conto di non fargli gran male ma di averlo più che altro spaventato per la sua reazione e realizzò immediatamente che le parti potevano invertirsi a breve se non avesse fatto qualcosa di più incisivo dei pugnetti che gli stava dando.

Decise pertanto di chiudere quella disputa in maniera definitiva.

Raccolse da terra la matita con cui stava disegnando, afferrò con tutta la sua forza il flaccido polso destro di Victor e tenendolo saldamente fermo, brandì la matita come un coltello e con veemenza la piantò sul dorso della mano del bullo. Subito il bambino si mise a gridare, la bocca aperta e tesa, le labbra unite da una stringa di saliva, gli occhi si inondarono di lacrime, mentre la mano diventava subito rossa di sangue.

La maestra accorse immediatamente, allarmata dalle grida disperate mentre Jackob osservava la scena attonito, stupito della sua stessa reazione ormai completamente dimessa. Le lacrime scorrevano copiose da quegli occhi, arcigni solo fino a qualche momento prima, che ora parevano solo patetici; a vedere quella scena non riuscì nemmeno a sentirsi in colpa, era solo stupito di sé stesso e della sua perdita di controllo improvvisa. Era come se mille fiumi avessero simultaneamente rotto gli argini in un solo enorme boato e lo avessero trascinato in una valle oscura, fiammeggiante, incandescente, rabbiosa di lava atavica e di bile limacciosa. Sentiva un grido intessuto d’ira esplodergli dentro, irto di tensione.

Aveva esitato per alcuni attimi ed era sopraggiunta la maestra, altrimenti avrebbe piantato la matita nell’occhio di Victor.

Fu solo la prima di tante esplosioni.

Questo episodio gli sarebbe costato l’espulsione dalla scuola se i suoi genitori non fossero riusciti ad insabbiare l’episodio con una consistente donazione per nuove attrezzature scolastiche.

I genitori di Jackob erano benestanti e possedevano una fabbrica tessile in città, per loro non fu difficile trovare una cifra sufficiente a far dimenticare l’episodio, sia alla scuola che ai genitori di Victor, che a loro volta si ritrovarono con il portafoglio rinverdito da un sostanzioso risarcimento. Avevano deciso di metterlo in quel posto sperduto proprio per tenerlo lontano dal clamore della città, dove episodi simili avrebbero avuto risonanza in tutta la società bene di cui loro erano membri stimati e conosciuti. Credevano che crescendo sarebbe cambiato e per aiutarlo pensarono di lasciarlo in quel paesino, dove loro possedevano una residenza estiva, in compagnia di un tutore e della servitù che doveva prendersi cura della casa. Tornavano i fine settimana da Vienna per andare a stare con lui, ma per il resto del tempo era sempre solo. Almeno una volta al mese gli portavano alcuni regali, come se con quelli potessero riparare alle loro assenze.

Aveva la cameretta invasa di giocattoli che però finiva per non usare più di un paio di giorni.

La sua attenzione era invece totalmente assorbita da blocchi di fogli, ormai vecchi e ingialliti, che aveva ritrovato dentro alla soffitta della casa e che portava sempre con sé per potervi disegnare. Appartenevano al fratello di suo nonno, Ernst, che era stato pittore di una certa fama in alcuni ambienti culturali anche se legato a correnti artistiche marginali. Jackob crebbe all’ombra di questa eredità, che gli veniva dal lato paterno, e l’impulso a disegnare era irresistibilmente legato a quei quaderni, come se dovesse continuare l’operato del suo stesso sangue. Ricordava di averli trovati nella soffitta dentro ad un grosso baule polveroso in cui erano contenute alcune opere incompiute ed inedite dello zio, i suoi diari personali e alcuni studi vari per opere mai realizzate. I suoi genitori avevano ereditato tutta quella roba dal nonno, ma non furono mai in grado di apprezzarne il reale valore bollandola come “inutile cianfrusaglia” e relegandola nella soffitta fino a che non fu Jackob a riportarla alla luce. Quando sollevò il coperchio del baule per prima cosa vide una vecchissima coperta di lana di colore porpora a coprire il tutto e poi, in bella vista, c’erano i blocchi.

Erano subito lì, intonsi.

Sussurravano alle sue orecchie di essere completati e portati avanti.

Scelse di cominciare con uno già iniziato dallo zio, contenente studi di una mano, voleva riprendere da dove l’operato precedente era stato interrotto.

Sentiva scorrere tra le due dita una sorta di tensione impellente verso quei vuoti fogli bianchi senza significato che chiedevano di essere riempiti. Ma allo stesso tempo percepiva anche un nitido timore reverenziale verso quello spazio lindo e perfetto su cui una sola linea tracciata avrebbe avuto l’effetto di una ferita e che avrebbe infranto la sua iniziale compostezza formale. Una volta inferto il primo taglio, recisa la pagina con la prima traccia del disegno, era assolutamente necessario riparare a quel danno componendo qualcosa che potesse cicatrizzarne il dolore: una maestosità degna della sofferenza imposta a quella superficie.

Una cauterizzazione sublime.

All’inizio i suoi disegni erano incerti, come del resto non potrebbe essere diversamente per un bambino della sua età, ma il talento nel tratto deciso e nella distribuzione del colore non tardarano ad uscire. Non poté ovviamente usare i quaderni del nonno per potervi imprimere una sua traccia indelebile, con un’opera affettivamente inestimabile, perché quando iniziò ad esercitare concretamente la professione del pittore, ormai le pagine erano andate esaurite dagli schizzi d’infanzia.

Conservò solo l’ultima pagina dell’ultimo quaderno completamente intonsa, con l’intento di riempirla prima o poi in un secondo tempo, quando si sarebbe sentito di poter finalmente creare l’opera della sua vita, quella che lo avrebbe reso celebre, portato nei libri di storia dell’arte, nelle gallerie private di mezzo mondo, tra fama e notorietà.

La sua vita.

Quando ebbe l’età per frequentare finalmente un istituto superiore andò a stare in un appartamento del grande palazzo in cui abitavano anche i suoi genitori, situato al centro di Vienna. Vivevano in due piani separati, benché i pasti fossero da svolgersi obbligatoriamente in comune. Pranzi e cene erano un evento terribilmente noioso per Jackob, per nulla interessato alle aspirazioni economiche medio borghesi del padre e nemmeno alla superficiale vanità della madre, che di per sé partecipava al capitale comune al solo scopo di dilapidarlo in lussi inutili. Per lui denaro, potere e oggetti avevano poco interesse, puntava alla realizzazione di nuove forme espressive che sentiva di essere sul punto di ideare. Aveva un senso di sé e delle proprie capacità ipertrofico, sentiva dentro di sé il fuoco di chi vorrebbe cambiare il mondo, il nuovo prometeo che dona la conoscenza agli uomini, o il nuovo lucifero, portatore di luce.

Dio non sarebbe stato niente se paragonato alle sue future opere, qualora fossero riuscite a prendere forma.

Adolescenza

Nel periodo liceale arrivò anche il primo amore: Beatrice, una radiosa ragazza di origini italiane.

La vide per la prima volta davanti alla scuola in una giornata fredda ma insolitamente molto luminosa. I gelidi raggi del sole erano impotenti nell’intaccare tutte le superfici ghiacciate dei muri, dei marciapiedi, delle panchine in legno, che ricoperte da coltri di galaverna sembravano avere uno strato di deliziosa glassa lucida ed invitante, quasi fosse un’enorme torta ricoperta. Nonostante il freddo tagliente ed agguerrito, la città aveva un aspetto molle e dolce, dagli angoli morbidi, avvolta da un fitto alone luminescente in cui facevano da contrasto i respiri caldi dei viennesi, che come nuvole leggiadre si espandevano tra i raggi del sole, per poi sparire tra le spire di una folata di vento nordico.

Jackob stava fuori dal cancello della scuola, da solo come sempre, ad osservare i locali circostanti e la struttura del paesaggio mentre all’interno del cortile gli schiamazzi degli altri ragazzi rimanevano ignorati dal suo senso di superiorità. Davanti a sé c’era un Pub dall’insegna colorata in rosso, con la scritta “Il sole”. Le pareti che lo delimitavano erano ricoperte da tavole di noce dipinte di verde smeraldo, sagomate e squadrate, che lasciavano spazio solo ad ampie finestre da cui era possibile scorgere l’interno. Era arredato con una sovrabbondanza di legno, panche, tavoli, pareti, bancone, lampade, bottiglie, bicchieri, ante, quasi fosse stato ricavato da un unico pezzo intagliato.

Veniva quasi la voglia di vedere se anche il proprietario fosse fatto dello stesso materiale, magari incidendogli un qualche stupido messaggino osceno sul culo.

Il Pub si trovava all’angolo della via che scendeva perpendicolare in direzione della scuola, da dove di solito si inerpicavano la maggior parte degli studenti. Beatrice non veniva da quella direzione ma stava percorrendo il marciapiede in cui Jackob sostava nell’apnea personale delle sue elaborazioni di realtà. Per questo non riuscì a vederla se non all’ultimo momento, quando lei dovette per forza passargli davanti per poi svoltare dentro il cortile della scuola.

Fu un’apparizione fugace che strappava la tela su cui stava visivamente dipingendo con il suo sguardo.

Ebbe solo il tempo di vedere quel suo bellissimo profilo armonioso e compatto, leggermente celato da soffici capelli biondi ricci che le arrivavano all’altezza del mento. Se ne stava raccolta nel suo cappotto tenendo stretti al petto alcuni libri foderati di fresco. Jackob non ebbe tempo di notare nulla di tutto questo perché ormai aveva già svoltato oltre la sua visuale. Si sporse rapidamente verso l’interno per poterla osservare ancora, ma fu in grado di vedere appena le spalle di lei, con il capo leggermente chino in avanti, come a contare i passi che stava facendo, mentre una borsa viola le dondolava ritmicamente sui fianchi seguendo la cadenza della sua andatura vellutata e vagamente titubante. Sparì dalla sua vista in mezzo alla folla lasciando sui suoi passi una scia colorata che permaneva aleggiante in mezzo a quel marasma di studenti parlottanti. Era come se il color crema del suo giaccone e i fiocchi rossi che l’adornavano fossero rimasti sospesi nell’aria diffondendo un fantasma iridescente con le sue fattezze.

Così l’aveva vista, eterea e splendida, una visione magnifica di bellezza trasfigurata nella brezza del nord.

Le ore di lezione scorrevano inutili e noiose quel giorno ma aveva nuovi obiettivi e prospettive a riempire l’attesa della ricreazione. La possibilità di rivederla ormai monopolizzava la sua concentrazione mentre ossessivamente cercava di ridisegnare il suo volto sulla prima pagina del libro di filosofia.

Un docente incapace ripeteva la lezione su Aristotele senza la minima passione, senza alcuna convinzione.

Come poteva pretendere che qualcuno lo ascoltasse se nemmeno lui era interessato a quello che stava dicendo?

Il suo compagno di banco lo ignorava come al solito, avrebbe potuto strapparsi un braccio e scagliarlo contro un muro senza che lui si scomponesse minimamente quindi poteva disegnare qualunque cosa volesse senza che la cosa sortisse alcun tipo di interesse. A meno che non disegnasse qualche donna nuda. In quel caso l’occhio lungo di Karl coglieva subito le sinuosità di qualche seno o le curve di qualche bel sedere. A volte Jackob li disegnava di proposito solo per scatenare gli ormoni di quell’erotomane affamato.

Si mise a guardare il limpido cielo fuori dalla finestra, interrompendo il suo lavoro a matita per cercare l’ispirazione di un dettaglio che non riusciva a focalizzare e che sperava di trovare nell’aspetto cristallino delle nuvole che si muovevano rapide, intente a rincorrere il nuvolone più grande che le precedeva.

Momentaneamente distratto, venne immediatamente ripreso dal docente

<<Tod! Cosa ho appena detto sulla gnoseologia di Aristotele?>>

Aspettando alcuni istanti prima di girarsi, rapito da qualcosa di più importante, come se in quelle nuvole stesse per scorgere il suo futuro, si rabbuiò immediatamente assunse un’aria truce e di sfida

<<Ah, era lei a parlare? Credevo fosse l’eco dei miei pensieri. Anche perché possiamo escludere con una relativa certezza che potesse essere quello dei suoi. Per poter pensare è biologicamente necessario avere un cervello. A meno che non si parli dell’eco dovuto all’assenza del suddetto cervello..>>

E sorrise malefico. Quello lo interruppe sbraitando

<<TOD! Come ti permetti? Sono stanco di te! Vai dal preside! Forza!>>

<<… serve passione anche per pensare..>>

Riuscì a sussurrare prima che il professore gli intimasse di recarsi nell’ufficio del preside.

<<TOD! Ho detto di andare dal preside!>>

<<Gentile docente, la sua richiesta è lucida, corretta, limpida, grammaticalmente ineccepibile ed espressa in maniera coerente, tuttavia temo di dover declinare gentilmente la sua offerta avanzatami con così tanta tracotante imperiosità.>>

<<Cosa hai detto??>>

Gridò sempre più furioso il professore che ormai stava raggiungendo i livelli di guardia per grave inquinamento acustico. Se la sua voce fosse stata sulla lunghezza d’onda degli ultrasuoni avrebbe provocato l’arenamento di branchi interi di balene che, confuse da quel suono, sarebbero finite a spiaggiarsi su qualche scogliera totalmente smarrite e prive di orientamento.

<<Difficile per lei, eh? Ho detto : NO. Non so se la traduzione in linguaggio base possa rendere l’idea..>>

E lo guardò dritto negli occhi, deciso e serio, teso a scattare da un momento all’altro come un animale aggredito. Il docente esitò quel tanto che bastava perché potesse aggiungere

<<Forse se le dicessi di andare a farsi fottere le sarebbe più chiaro?>>

Ormai i compagni di classe non si stupivano nemmeno più delle sue sparate improvvise che solitamente finivano in una bolla di sapone, seguita dalla solita donazione dei genitori e dalle solite finte scuse da parte di Jackob.

Tutti assistevano attenti al confronto.

Forse più annoiati che attenti.

In fin dei conti era una cosa che capitava così di frequente che ormai non era più nulla di nuovo.

In quel momento preciso suonò la campanella che decretava l’intervallo.

Jackob subito uscì spedito dall’aula mentre il docente gli intimava di tornare indietro gridando così forte da far rimbombare la sua voce per tutti i corridoi e giungere fino alla presidenza dove la situazione era ormai già nota e chiara.

Il tutto mentre branchi di balene si accatastavano lungo le spiagge di tutto il mediterraneo.

Arrivò nel cortile che lentamente si stava riempiendo di una fiumana di persone e iniziò a guardarsi intorno sperando di scorgere quel viso intravisto la mattina. E finalmente la vide muoversi sorridente accanto ad una compagna più alta di lei e con dei lunghissimi capelli lisci che le cadevano dietro la schiena come una cascata.

Rimase a fissarla mentre lei passeggiava parlottando con l’amica. Le si avvicinò, la guardò e non appena ebbe ricambiato lo sguardo le porse la sua mano per dirle cordialmente

<<Ciao.. Mi chiamo Jackob..>>

<<TOOOOOOOOOOOOD!>>

Gridò il professore furente sopraggiungendo nel cortile mentre le balene degli oceani perdevano momentaneamente l’orientamento.

<<Appunto..il resto l’ha detto lui.. e temo di essere richiesto altrove!>>

Disse sorridendole dolcemente mentre il docente di filosofia sbraitava alle sue spalle. Prima che fosse trascinato via riuscì a chiederle come si chiamava, avendo solo il tempo di sentire la sua voce interdetta e perplessa sussurrare

<<.. Beatrice..>>

La presidenza ormai era il posto dove passava più tempo durante le sue lunghe permanenze a scuola e il preside Kirchner era una persona tutto sommato ragionevole e persino amichevole. A differenza degli altri insegnanti, ostinatamente mediocri, il preside prima di tutti aveva capito che Jackob era una persona sicuramente ingestibile, ma contemporaneamente dotata di un vero talento artistico.

Gli si era rivelato un giorno in cui si erano ritrovati nello stesso posto sulle rive del Danubio, dove Jackob si era posizionato per dipingere un paesaggio cittadino a tempera, puri esercizi stilistici fino a quel momento ma che già contenevano il germe dell’estro artistico. Arrivò alle sue spalle senza che si accorgesse di nulla. Si ricordava bene di quel ragazzo perché puntualmente veniva trascinato nel suo ufficio per ricevere punizioni: perché non ascoltava, perché si picchiava con i compagni, perché disturbava, o altro; una volta aveva persino scardinato la porta della classe. Riusciva a rimanere in quell’istituto solo perché i suoi genitori continuavano a rimpinguare le casse con gettiti di denaro non indifferenti, affinché potesse diplomarsi in quello che era uno dei licei più prestigiosi della città. Non eccelleva in nessuna materia, anzi arrancava a fare il minimo indispensabile, spesso senza nemmeno riuscirci. Tuttavia i genitori si erano anche prodigati affinché venisse regolarmente promosso ogni anno. Aveva sempre avuto l’idea che non fosse nulla di più che un futuro delinquente ignorante anche se in alcuni episodi aveva dimostrato di essere fatto di tutt’altra pasta. Alle volte infatti le circostanze facevano trapelare un qualche dettaglio inspiegabile nel modo di atteggiarsi che lasciava intendere una sua natura molto più intelligente e sensibile di quanto volesse far vedere.

Quella volta in cui lo vide sulle rive del fiume, rimase alle sue spalle ad osservare mentre dipingeva; in quel momento non era più il ragazzino ribelle che faceva lo strafottente nel suo ufficio, era una persona con una passione trascinante, riusciva a leggerlo nella sua totale assenza dal mondo, era immerso esclusivamente nel movimento delle sue pennellate, pulite, sapienti e consapevoli. Pareva che mettesse colore proprio lì dove andava messo, non stava sbagliando, faceva quello che andava fatto, come se un’entità superiore gli suggerisse di farlo. Come se delle miriadi di alternative estetiche possibili, solo una fosse quella giusta e lui fosse in grado di scegliere proprio quella tra le tante. Il preside ricordava di aver goduto anche lui della stessa passione per l’insegnamento e ora non ricordava nemmeno più quando avesse esaurito quella forza trascinante che era il motore dei suoi giorni.

Trascorse alcuni minuti ad osservare l’opera in corso prima di decidersi a parlare

<<Hai talento.>>

Jackob si girò verso la voce rivelando un’espressione lontana dalla strafottenza che gli era usuale, il suo sguardo era al contrario, cupo, angosciato, oppresso da un peso enorme, come se tutti i problemi del mondo gravassero sulla sua esistenza nel preciso frangente in cui prendeva in mano pennello e matita. Infatti non traspariva arroganza o autocompiacimento dalla sua risposta che, per quanto banale, risultava stranamente umile e con un sentore di disagio, come quando si fa un complimento a qualcuno che crede di non meritarlo.

<<Grazie Signor Preside.>>

<<E’ da tanto che ci lavori?>>

Proseguì con curiosità il preside Kirchner

<<Alcuni mesi. Era da parecchio che aspettavo la luce di questa giornata. E’ come se fosse consolante, non le sembra che avvolga ogni cosa come un abbraccio affettuoso di una madre che asciuga il proprio figlio appena uscito dal bagnetto?>>

Rispondeva alle domande senza nascondersi, si stava rendendo vulnerabile di fronte a quella persona che si occupava delle sue punizione con una tale naturalezza da non creare alcun disagio, nessuno dei due era immerso nel suo ruolo, erano solo due persone che parlavano di sé.

Nude una di fronte all’altra.

<<Credo che mia moglie avrebbe apprezzato molto questo tuo lavoro. Anche lei dipingeva. Ed era anche molto brava.>>

<<E perché ha smesso?>>

<<E’ morta..>>

<<Non lo sapevo.. mi dispiace.>>

In quel momento era sinceramente dispiaciuto, perché ad osservarlo c’era qualcuno che per la prima volta non vedeva come un membro della barricata opposta alla sua, ma come un uomo con i suoi stessi dolori. Il preside capì la sua sincerità e rimase in silenzio ad osservarlo mentre dipingeva. Ricordava la moglie e quando la assisteva nel dipingere, il pensiero gli tenne compagnia per il resto della giornata, intriso di malinconia ma anche del tepore di quella presenza che, nonostante l’accaduto, continuava a sentire accanto a sé con un calore mai raffreddato dal tempo.

Da quel giorno iniziò a vedere Jackob sotto una luce diversa e gli fornì il suo appoggio per continuare a dipingere, cercando di incoraggiarlo nelle sue spinte creative e di limitare al contrario i suoi impulsi distruttivi e ribelli. Quando seppe il motivo per cui il docente di filosofia, un uomo alto e secco, con due occhiali rotondi e l’aria più del ratto che dell’uomo, lo aveva portato in presidenza, dovette controllarsi dal ridere.

Quell’uomo era veramente un imbecille senza cervello. Era il ritratto della mediocrità, era noioso persino ora che sbraitava ed inveiva inferocito contro Tod. Sospirò penosamente mentre ascoltava le lamentele dell’insegnante chiedendosi quando la categoria fosse caduta così in basso e soprattutto come avesse potuto permettere a sé stesso di farsi circondare da simili vermi senza passioni. Sarà stato anche uno dei più preparati e competenti del suo corso, ma rimaneva un perfetto idiota. E nemmeno gli altri suoi colleghi erano da meno. Avrebbe dovuto dare un premio a Tod per aver risvegliato in quel cretino un po’ di amor proprio, invece dovette punire lo studente con la solita sospensione che poi i genitori avrebbero prontamente pensato a tamponare una volta avvertiti.

<<Io e tua madre siamo stufi delle tue scenate! Abbiamo fatto di tutto per darti un’educazione! E tu è così che ci ringrazi? Facendo il coglione ad ogni occasione che ti viene data? Non studi nulla, non fai mai niente tranne imbrattare le tue tele con disegni senza senso, ma non ti vergogni? Alla tua età ero il migliore del mio corso!>>

La voce rimbombava per tutta la casa dei Tod, Jackob ascoltava in silenzio il padre che gridava fuori di sé dalla collera. L’episodio non era nemmeno dei più gravi, ma era decisamente l’ultimo di una serie infinita che ormai aveva portato all’esasperazione i suoi genitori. Ascoltava in silenzio, frustrato dall’idea di sentirsi ogni giorno sempre più incompreso, isolato dalle altre persone. Suo padre viveva per il lavoro, per quello aveva sacrificato il suo unico figlio, negandogli attenzioni, tempo, spazio.

Non riuscivano a capirsi.

Jackob non ambiva ad una vita di agio, di denaro, asservita all’accumulo di ricchezze; voleva semplicemente vivere e accumulare esperienze, emozioni, vissuti e ricordi schiumanti sull’onda di un passato trascorso nell’adrenalina dell’esistenza. Voleva lasciare nella memoria collettiva degli uomini un ricordo del suo passaggio e non un edificio di mattoni abbandonato all’incuria del susseguirsi delle stagioni e destinato a scomparire tra le scaglie del tempo.

Il tempo non è a granelli, ma a scaglie, frazioni più grosse che ricoprono gli uomini e scompaiono in blocchi, intere ere vengono dimenticate, e ci ritroviamo a pensare che nulla sia accaduto una volta che la scaglia ricopre un periodo con la distanza cronologica. E così ci facciamo convincere che siano esistite guerre giuste, che alcuni massacri andrebbero ridimensionati e finiamo per dimenticare le ingiustizie passate, nascoste sotto un sottile strato rigido e traslucido, sotto cui nulla è avvenuto.

<<Jackob, mi stai ascoltando?!>>

Urlò sgraziato il padre

<<Si.>>

Rispose cupo e lapidario Jackob.

<<Allora la devi piantare di prenderci in giro con le tue cazzate! La devi smettere di perdere tempo dietro a queste stronzate, tu devi fare come tuo padre, il tuo posto è nell’azienda di famiglia! Guarda qui, cosa diavolo è questo?>>

Disse prendendo in mano uno dei suoi dipinti, proprio quello che anche il preside Kirchner aveva visto tempo addietro e che ora era ormai completato.

<<Non voglio più che tu perda tempo dietro a questa roba. Mi ha capito?>>

E nel dire questo afferrò il dipinto a due mani e iniziò a sbatterlo ripetutamente contro lo spigolo di una pesante credenza in ebano che si trovava nel salone centrale. La tela si strappò e la cornice in legno si spezzò in diversi pezzi.

Jackob trattenne la rabbia che gli stava annebbiando la vista, avrebbe voluto saltargli al collo.

Ma riuscì a rimanere fermo.

<<Spero che ti serva di lezione, non voglio più vederti perdere tempo dietro a questa roba? MI HAI CAPITO?>>

Gli disse e poi rivolgendosi alla moglie

<<Andiamo che altrimenti facciamo tardi.>>

Uscirono di casa praticamente subito, tutti vestiti da grande cerimonia per poter presenziare ad uno dei ricevimenti più in vista della città, pieno di buffoni boriosi impellicciati e intenti a vantare l’estensione delle proprie ricchezze o la gloria dei propri successi. Jackob, lasciato solo in casa, rimase fermo nella posizione in cui l’avevano lasciato i suoi genitori. Era pietrificato, non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo dipinto fatto a pezzi. Era sconfortato e pieno di collera allo stesso momento, nessuno riusciva a capire i suoi sforzi, il suo impegno, quel suo essere.

Era solo.

Impotente davanti allo sfacelo della sua anima, della sua arte ridotta a brandelli. La tela strappata e lacera pareva sanguinasse, come se quelle ferite fossero fatte direttamente sulla sua pelle. Come se suo padre avesse preso lui per sbatterlo fino a scalfire quella sottile superficie di velina che avvolgeva l’essenza della sua persona, infranta e distrutta. Qualcosa dentro di lui si era incrinato e ora stava in piedi, ghiacciato dal dolore e dallo sgomento di vedersi a pezzi accanto ad una credenza.

Una maledetta credenza in ebano.

Lucida e ben tornita.

Jackob rimase immobile davanti allo scempio della sua persona senza rendersi conto del tempo che scorreva.

Lo sguardo fisso reclinato del vuoto.

Il suo stallo emotivo non era destinato a durare molto a lungo, il controllo che aveva sulle proprie emozioni stava scemando e la collera stava crescendo.

Strinse i pugni e sferrò un calcio alla credenza con la pianta del piede destro sfondando l’anta centrale in due pezzi che, frantumandosi, gettarono per la stanza alcune schegge sottilissime. Si avvicinò ai bordi per tentare di ribaltarla ma l’unico risultato fu quello di diventare paonazzo senza ottenere risultato alcuno. La vista si annebbiò per lo sforzo perché era troppo massiccia e pesante. Dietro la credenza c’era un grande specchio di forma ovale con la cornice in ottone tutta intarsiata e bombata da forme astratte arrotondate che lo facevano sembrare avvolto dalle fiamme. Lo staccò dalla parete con una foga tale da far saltare il sostegno che lo reggeva al muro, lo sollevò sopra la testa per poi farlo ricadere violentemente contro il bordo della credenza.

Al primo colpo non successe nulla.

Nemmeno al secondo e al terzo.

Lo scagliò sulla parete alle sue spalle contro un quadro che rovinò a terra e la cui tela si staccò dalla cornice svelando un’inaspettata fragilità. Neanche allora lo specchio si ruppe. Jackob allora rovesciò ogni cosa fosse presente sopra quella credenza, soprammobili, piatti ornamentali e una fruttiera d’argento. Raccolse quest’ultima da terra e la lanciò fuori dalla finestra rompendo il vetro e facendola cadere in strada.

Lasciò la stanza camminando a passo spedito per scendere negli scantinati del palazzo a cercare l’unica cosa che potesse essergli utile in quel momento : un’ascia. Risalì le scale correndo e per questo inciampò sul tappeto che le ricopriva perché questi aveva fatto una leggera ansa su cui andò a battere il suo piede. Si alzò e iniziò a colpire il corrimano fino a staccarne buona parte dalla parete.

Ma non era quello il suo obiettivo, voleva la credenza.

Usò tutta la sua forza per farla a pezzi e poi gettarla dentro il fuoco. Stesso trattamento subirono tutti i mobili di quella stanza, il divano, il tavolo, le sedie, la cristalliera, tutto venne spaccato dalla sua furia distruttrice per poi essere bruciato dentro al camino. Finalmente arrivò anche il turno dello specchio, vi si avvicinò e gli diede un solo colpo con cui lo frantumò in una miriade di pezzi e di polvere di vetro.

Informazioni su Jeremy Merrick

L'apparenza mi penalizza. L'umore mi manda sull'altalena. Le prugne al bagno.
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