Lama XXIII R – Ferite (seconda parte)

 

Giulio entrò in casa della nonna sbattendo la porta, più per sbadataggine dovuta allo stato in cui si trovava, che per una forma di mancanza di rispetto per l’ottuagenaria. La differenza non fu colta dalla madre che si precipitò all’ingresso inveendo con la voce soffocata per non svegliare la nonna

<<Perché cavolo fai tutto questo casino?! La nonna sta cercando di riposare!>>

<<Dai ma’, stai calma, non l’ho fatto apposta, mi è scappata..>>

Disse ciancicando le parole con la bocca impastata.

<<Come mai sei già a casa? Non dovresti essere a scuola?>>

Incalzò Roberta con la voce al culmine della sua irritazione

<<Siamo usciti prima, non c’era la professoressa di Algebra. Volevo vedere la nonna.>>

<<Ora lasciala stare, più tardi.>>

Chiuse il discorso sgarbatamente e lo guardò meglio.

Trascinava le parole, aveva gli occhi gonfi e rossi, l’espressione inebetita. Si era fatto le canne. Non aveva ancora avuto il coraggio di affrontare il discorso. Tra il divorzio e la nonna sapeva che per lui era un momento difficile, ma era seriamente preoccupata. Arrivava a casa sempre più tardi, dormiva poco, si trascurava e andava in giro vestito come un barbone con i vestiti tutti strappati. A volte tornava a casa ubriaco e passava la notte a vomitare. Lei lo sentiva dalla sua stanza ma non sapeva cosa fare. Non voleva mettergli pressioni ma non sapeva come riprenderlo, era inavvicinabile e chiuso in se stesso. Non le raccontava più nulla, non c’era mai. Vedeva la sua espressione infelice e non sapeva come aiutarlo. Voleva abbracciarlo ma non poteva fare a meno di sentirsi sempre più rancorosa.

In quel momento cercò di essere più accomodante, senza riuscirci troppo bene, dicendo solo

<<Ho fatto il caffè. Ne vuoi?>>

Giulio accettò annuendo con una smorfia della bocca.

Erano due anni ormai che tornava a casa in condizioni pietose e ancora non si capacitava di come facesse sua madre a non accorgersene. Si ammazzava di canne prima ancora di entrare in classe, era completamente inebetito dall’hashish, puzzava di fumo lontano un miglio e lei non gli diceva mai nulla. A scuola aveva iniziato a fare schifo, ma quello non dipendeva tanto dalle canne, quanto dal fatto che stava male. Sentiva sempre un peso dentro da cui non riusciva a liberarsi. Pensava di continuo e per evitare di farlo preferiva sedare il suo cervello con droghe e alcol. Ormai giocava all’autodistruzione. C’era un nonsoché di figo in tutto questo. Bere fino a sboccare, fumare fino a stordirsi e far diventare entrambe le cose motivo di vanto con gli amici. Se non sbocchi vuol dire che non ti sei divertito, se non sei fuso stai passando una brutta serata. Farsi del male, vedersi ridotto ad una larva e rantolare di tosse lo faceva sentire accettato dai coetanei e apprezzato. Si rideva tutti insieme del tizio che aveva rimesso tutta la sera o di quello che si era calato un acido e diceva di parlare con la mamma di Bambi, di quello che non aveva dormito per due giorni sotto ecstasy o di quello che era svenuto in classe perché fatto come un cammello e così via.

Si sentiva un sopravvissuto della sofferenza.

Si vedeva come una specie di eroe, di quelli che subiscono ogni sorta di avversità ma continuano a resistere. Perché lui non faceva parte del sistema. Gli adulti non potevano capire, lui era un ribelle, un trasgressivo, non faceva quello che facevano gli altri.

Lui non si adeguava.

O forse era l’esatto contrario visto che, nella sua classe, erano veramente pochi quelli che non fumavano e non bevevano. Forse era più conformista di quanto pensasse. In fin dei conti anche il conformismo è relativo al gruppo di riferimento della persona. Si tende a vedere come composto da individui eterogenei il gruppo a cui si appartiene, mentre i membri di gruppi esterni si percepiscono come tutti uguali e omologati, privi di personalità.

Le magie della psicologia.

Giulio era perfettamente omologato con i suoi coetanei.

Andarono insieme in cucina. Passarono davanti alla stanza da letto e Giulio ebbe un momento di profonda tristezza nel sentire il respiro pesante e gracchiante della nonna. Roberta versò il caffè in due tazzine che poggiò sul tavolo. Giulio maldestramente prese una sedia e per poco non la fece cadere, con l’evidente biasimo della madre.

Si sedettero l’uno accanto all’altro fissando imbarazzati la televisione.

Giulio interruppe il silenzio

<<Sta tanto male?>>

<<Si..>>

<<Lo zio ha già chiamato?>>

<<Non ancora.>>

Giulio si chiese che aspetto potesse avere suo zio, non lo aveva mai visto se non in qualche vecchia foto che aveva trovato in casa, dentro ad un cassetto, un giorno che cercava della carta per fare un filtro. In una era ritratto insieme all’amica bionda della mamma; erano abbracciati e sorridenti e si guardavano negli occhi come innamorati. Sembrava si volessero molto bene. E in quel momento desiderò che qualche ragazza gli riservasse lo stesso sguardo che Angelica aveva avuto per lo zio.

Il cellulare di Roberta iniziò a suonare, dava un numero sconosciuto.

<<Pronto?>>

[..]

<<Ciao.. stavamo aspettando la tua chiamata.. E’ una vita che non ci sentiamo..>>

[..]

<<Non le rimane ancora tanto tempo, potrebbe succedere da un momento all’altro..>>

[..]

<<Dove sei ora?>>

[..]

<<Ok, ho già guardato gli orari e me li sono segnati. Hai un treno tra mezzora e in un paio d’ore sei qui. Ti viene a prendere tuo nipote, io rimango qui con la mamma. Se avessi qualche problema chiama sempre su questo numero.>>

[..]

<<Ti aspettiamo, a dopo, Ciao..>>

Fausto restituì il cellulare a Saverio senza chiudere la chiamata e si congedò, camminando in direzione della stazione.

Stava percorrendo un lungo viale alberato, quello che tagliava a metà il paese per tutta la sua lunghezza e terminava esattamente dirimpetto alla stazione, quando principiò a piovere. Quella piccola pioggerellina fine simile ad una nebbia leggera, sufficientemente fastidiosa da bagnare ed inumidire tutto ma non abbastanza per giustificare l’apertura dell’ombrello che Fausto, in ogni caso, non aveva con sé. Il cielo era grigio e basso, l’aria era umida e pesante. Si fermò di fronte ad un’edicola per leggere le prime pagine dei giornali e constatare che nulla era cambiato da quando aveva deciso di lasciare il mondo, guerre, fame, povertà, violenza, corruzione.

Il disprezzo per l’umanità l’aveva spinto all’isolamento, insieme ad un certo istinto di sopravvivenza vista la sua peculiarità che lo aveva portato quasi al punto di morire.

Per ora nessun sintomo.

Nella solitudine sentiva solo il rumore dei suoi passi ma osservava i passanti con stupore e curiosità. Le mode erano cambiate ma non era quello a far sembrare le persone diverse da come le ricordava lui. Era un misto tra indifferenza, smarrimento e rassegnazione a colpirlo negli sguardi che incrociava.

Ma non c’era solo quello, per fortuna.

In alcuni si poteva scorgere la speranza, un barlume battagliero in un brivido di voglia di cambiare.

Erano pochi ma si vedevano bene. Erano luminescenze in una via oscura. Lucciole estinte in campo infinito e deserto.

Giunto in stazione si mise ad aspettare il treno seduto su di una panchina accanto ai binari. Il freddo era leggero e penetrante. Una giovane ragazza si mise al suo fianco. Aveva dei lunghi capelli castani lisci e lucidi. Profondi occhi scuri color nocciola e lineamenti delicati, accentuati da un trucco leggero. Avvolta in una sciarpa lanosa di color rosa, vi affondò il volto dentro fino a farvi scomparire la bocca carnosa. Indossava un giaccone nero di lana, jeans aderenti alle sue lunghe gambe affusolate ed un paio di stivali che arrivavano sopra la caviglia.

Ed era bellissima.

Si infilò un paio di cuffie e rimase a fissare davanti a sé, canticchiando

<<..don’t forgive me..>>

Fausto sentì un improvviso bruciore sull’avambraccio destro. Era come se stesse andando a fuoco, insieme ad una sensazione sottile di dolore. Una lama che tagliava la pelle, separava la carne e arrivava in profondo. Si portò la mano sinistra al braccio e subito percepì una forte sensazione di calore. Guardò lo sguardo triste della ragazza, capì subito tutto, e senza esitare corse via verso i bagni della stazione.

Non era guarito.

Erano dei veri cessi.

Le peggiori latrine di tutta la Scozia, se fosse stato in Trainspotting. Incrostazioni ovunque, sporco, carte per terra, scritte, odore di piscio e di vomito. Entrò in quello apparentemente meno disastrato e si chiuse immediatamente la porta alle spalle. Sollevò lentamente la manica del maglione e scoprì un avambraccio deturpato e sanguinolento. La piaga purulenta lo copriva quasi completamente, aveva perso i peli e un taglio lo percorreva in tutta la sua lunghezza. Non usciva sangue in maniera copiosa, ma sufficiente per sporcare il vestito. Non aveva soldi con sé per comprarsi delle garze e comunque non aveva tempo per andare in una farmacia perché il treno sarebbe arrivato dopo poco.

Di usare la carta igienica dei bagni non se ne parlava nemmeno. Il vaiolo non era ancora stato debellata in quel luogo dimenticato dal sapone e c’era il rischio di non passare nemmeno la mattinata prima di trovarsi sottoterra.

Si sfilò lo zaino e lo aprì.

L’unica cosa che poteva usare erano le pagine del libro che aveva portato con sé. “Il tamburo di latta”. Strappò la prima pagina, quella bianca con l’intestazione, e ci pulì la ferita. Poi passò alle pagine iniziali e ci avvolse il braccio facendo un bello strato. Le fermò con degli elastici trovati fortuitamente nello zaino. Non sapeva come mai li avesse, ma l’importante era che ci fossero. Riavvolse la manica ed uscì dal bagno senza pagare all’uscita, dileguandosi rapidamente e concedendo il tempo alla custode di lanciargli solo uno sguardo sdegnoso prima che lo perdesse di vista.

Ritornò sul binario stando molto lontano dalla ragazza.

L’arrivo del treno venne annunciato dopo cinque minuti. Quando lo vide arrivare non poté trattenere un moto di stupore: i treni erano ancora gli stessi di trent’anni prima!

E dire che già allora erano vecchi e malridotti!

La ragazza salì sul treno e Fausto dopo di lei, tenendo sempre una certa distanza. Per un attimo ebbe l’impressione di essere rientrato nei gabinetti della stazione dallo sporco che c’era. Si accomodò verso la fine dello scompartimento, Fausto si mise tre sedili più indietro. Il treno partì dopo una serie di scossoni tremolanti e incoraggianti quanto un invito a cena da Jack lo squartatore. Fausto era ateo ma trattenne a stento un pensiero di raccomandarsi a dio per arrivare sano e salvo a destinazione. Accanto a lui non c’era nessuno. Aprì il libro menomato delle prime pagine e si immerse nella lettura. Lo guardò con vergogna ed imbarazzo e sperò che l’autore non venisse mai a saperlo.

Come se da qualche parte potesse averlo visto.

Era quasi un’ora che viaggiava quando finalmente, nel chiasso dello scompartimento, riuscì a distinguere la voce della ragazza. Stava parlando al telefono, incurante di tutti, la voce incrinata arrivava al suo orecchio come un sussurro.

<<.. perché mi manchi da morire..>>

[..]

<<..sto male senza di te.. io non volevo che finisse tra di noi.. tu non puoi capire quanto io stia soffrendo..>>

Fausto trovò le conferme che cercava.

Angelica, nella solitudine del negozio deserto, senza clienti, metteva in ordine i vestiti e ripensava al passato.

Aveva tradito Fausto.

Era andata a letto con un altro.

Provava ancora vergogna.

Non le era mai capitato di amare così tanto una persona e nonostante questo, lo aveva tradito. Era stato un momento di debolezza, lusingata dalle attenzioni di un ragazzo, complice l’alcol, l’intraprendenza di lui e forse la paura di non poter più fare altre esperienze, la voglia di essere trasgressiva per una volta, si lasciò andare.

E le conseguenze furono catastrofiche.

Gli errori si pagano sempre a caro prezzo e purtroppo fa parte dell’essere adulti assumersi le proprie responsabilità.

Lo evitò per alcuni giorni, non si sentiva di poterlo guardare negli occhi. Fino a quando non decise di parlargli di quello che era successo. Non voleva mentire, non voleva nascondere la verità. Sapeva che lo avrebbe perso, ma nel profondo sperava che potesse perdonarla, cullava un piccolo barlume di speranza.

L’illusione di chi si lancia da un grattacielo e crede che la caduta duri un’eternità e che mai si arriverà a toccare terra.

Era stata una cosa senza importanza, in un momento di smarrimento, stupido e temporaneo. Decise di affrontare finalmente il discorso, un Venerdì.

Era il 12, lo ricordava benissimo.

Fausto quel giorno non disse nulla. Non parlò. La sua sofferenza era palpabile, era come se gli avessero dilaniato il cuore. Si fece cupo e muto. Erano seduti sopra una panchina. Come era arrivato sorridendo, se ne andò in silenzio.

Non la volle più vedere e da quel giorno si chiuse sempre più in sé stesso.

Seppe del suo infarto alcuni giorni dopo.

Le notizie che riusciva ad avere le arrivavano da Roberta che aveva continuato ad essere sua amica. Le impedì di vedere Fausto e solo alcuni anni dopo venne a sapere quanto era accaduto. Qualcosa di poco chiaro in realtà, pare che dopo quel giorno Fausto cambiò, divenne schivo e tenebroso, introverso fino ad essere inavvicinabile. Indirettamente venne a sapere che dovette andare da psicologi e psichiatri per un disturbo inspiegabile ma di cui non riuscì a capire la natura. Pensò ad una forte depressione dovuta al suo tradimento ma pare che fosse qualcosa di più grave e incontrollabile.

Le venne da piangere al solo pensiero.

Non riuscì mai ad avere alcuna spiegazione e da quel Venerdì 12 non riuscì più a vederlo. Venne solo a sapere che se n’era andato. Roberta non le disse mai più nulla di suo fratello, era il tacito prezzo per la sua amicizia.

Iniziò a piovere.

Le persone che circolavano diminuirono e con esse anche le possibilità di vedere altri clienti. In una giornata in cui erano entrate appena tre persone, le prospettive erano lontanissime dall’essere anche solo vagamente incoraggianti per una vendita di qualunque entità.

Giulio era in stazione ad attendere lo zio.

Si era portato un cartoncino su cui aveva scritto a grossi caratteri “ZIO FAUSTO”, in modo da farsi riconoscere.

I passanti appena scesi dal treno lo osservavano con una certa curiosità e sbigottimento.

La prima impressione era quella di vedere un tizio poco raccomandabile con una bestemmia scritta sopra un cartone, dettata dalla superficialità di lettura delle persone e dalla pessima grafia del ragazzo. Vedere uno squilibrato con un cartello delirante, tutto sommato, non sarebbe stata nemmeno una cosa poi così inusuale in una delle stazioni centrali più grandi del paese.

Ancora rintronato da quello che si era fumato, Giulio era inconsapevole di tutto questo.

Nulla poteva farlo vergognare agli occhi degli altri. Tranne forse le ragazze, quelle lo mettevano sempre in difficoltà, non c’era sbornia che reggesse il confronto.

Un tizio alto e piazzato, una specie di barbone cencioso appena sceso dal treno si diresse verso di lui in maniera decisa e spedita e quando gli arrivò dirimpetto Giulio timidamente chiese

<<Zio?>>

Questi nemmeno lo ascoltò e iniziò ad inveirgli contro. Come si permetteva a presentarsi in un luogo pubblico con una bestemmia che potevano leggere anche i bambini? Ma chi gli aveva insegnato l’educazione? Drogato! Drogato! Incivile! Il signore lo avrebbe punito! Empio!

Giulio era piuttosto confuso e intontito, quindi subiva passivamente la rabbia di quell’uomo che, evidentemente, non era suo zio.

Un altro barbone cencioso, attirato dalle grida, si avvicinò e prese le difese del povero Giulio ormai annichilito, mandando via con decisione l’uomo che sbraitava. Dopodiché si volse verso di lui e gli disse con un sorriso appena accennato

<<O hai delle serie motivazioni che ti spingono ad inveire contro dio in una maniera così plateale oppure su quel cartello c’è scritto male “Zio Fausto” e tu devi essere mio nipote.>>

Giulio pensò di aver semplicemente sbagliato barbone cencioso e lo guardò con i suoi occhi vacui.

Contemporaneamente una nuova fitta colpì Fausto al fianco sinistro. Sorda e lacerante. Dolorosa e fittissima. Cercò di dissimulare le smorfie di fronte al nipote con alcuni forzati sorrisi, mentre si allontanò leggermente dal ragazzo sperando che la sofferenza diminuisse. Non accennando a scemare, con una scusa si fece accompagnare in bagno per cercare di coprire la nuova piaga con altre pagine di libro. Quella sul braccio stava già migliorando, mentre quella sul fianco era tumefatta e pulsante. Rossa e piena di grumi di sangue. Partiva dalla gamba ad altezza inguine e saliva in obliquo sul fianco fino alla schiena, in prossimità dell’ascella.

Cosa mai poteva avere suo nipote?

Roberta era nel silenzio della cucina.

Aveva spento la televisione e guardava il tavolo, immersa nei suoi pensieri.

Solo il respiro pesante di sua madre proveniva dalla camera da letto. In un certo senso la faceva sentire meno sola. Quel rumore le scrollava dalle spalle il senso di solitudine e di fallimento. Sua madre stava per morire. L’unica presenza positiva, il pilastro della sua esistenza stava per venire a mancare e non credeva sarebbe stata in grado di reggersi più da sola. Non sapeva comunicare con suo figlio, suo fratello era lontano, il suo matrimonio era fallito e ora questo.

Le mancava l’aria dai polmoni e non sapeva come avrebbe reagito al lutto.

Sentì la porta aprirsi, e vide entrare Giulio insieme a Fausto. Nonostante l’apparenza non era cambiato. Quando la vide le sorrise e le si avvicinò per abbracciarla. Roberta lo strinse a sé commossa e con le lacrime agli occhi.

Fausto in quel momento sentì le braccia della sorella farsi improvvisamente incandescenti. Sentì la sua pelle friggere sotto le dita di Roberta. Non volle allontanarla perché capì quanto lei ne avesse bisogno e sopportò in silenzio. Sulla sua pelle iniziarono ad aprirsi ferite profonde, si rattrappiva e si rigirava, ricoprendosi di pustole e bolle come un fuoco di Sant’Antonio, mentre lievi fiotti di sangue iniziavano ad uscire.

Roberta lo strinse ancora più forte a sé da tanto era il bisogno che aveva di essere consolata. Lo allontanò solo quando si rese conto delle conseguenze che aveva il suo abbraccio su Fausto.

<<Zio che ti succede alla schiena?>>

Disse Giulio improvvisamente, inorridendo di fronte alle macchie di sangue sul vestito.

Roberta lo guardò mortificata ma non ebbe il tempo di parlare che Fausto dolcemente le disse

<<Shhhhh… non ti preoccupare. Mi ha fatto piacere e non è successo nulla. Ora andiamo in bagno e dammi una mano a medicarmi. Prendi delle bende per favore..>>

In bagno, mentre lo aiutava a medicarsi e avvolgere le piaghe nelle bende, rimanendo pur sempre ad una certa distanza, gli disse

<<Non sei guarito..>>

<<Temo di no, a meno che non abbia dormito sulla stufa stanotte senza accorgermene..>>

Disse ironico lui

<<Stare nella stessa stanza con mamma cosa ti può fare?>>

<<Qualunque cosa potesse farmi, avrebbe già dovuto avere qualche conseguenza. Mi sento solo terribilmente spossato. Forse è serena, non sta soffrendo.. E comunque non sono venuto fino a qua per poi non vederla..>>

Le disse mentre si sciacquava le mani nel lavandino.

<<Il viaggio come è andato?>>

<<Insomma..>>

E le mostrò l’avambraccio per poi ritornare a lavarsi le mani.

<<..in compenso sono riuscito a venire fin qui senza soldi, senza biglietto e senza incontrare nemmeno un controllore..>>

<<Almeno quello..>>

Asserì lei.

<<Le cose non devono andare sempre male per forza.>>

Le disse lui con affetto. E aggiunse

<<Andiamo, voglio vedere la mamma.>>

Quando entrò la donna stava sognando mentre un pacifico sorriso le disegnava il volto. Fausto ebbe un fremito temendo che fosse morta. Le si avvicinò ma si accorse che ancora respirava. Si sedette a lato del letto e rimase ad osservarla. Era tanto che non la vedeva e decise di trascorrere del tempo con lei senza muoversi da lì, in silenzio. Sua sorella e suo nipote lo avevano lasciato da solo. Percepiva in sua madre serenità. Il senso di spossatezza gli veniva dal clima lugubre e funereo della casa. Del resto il presagio di quello che sarebbe accaduto era piuttosto palpabile, altrimenti non lo avrebbero richiamato per tornare al suo capezzale.

Si sentì sfinito, stanco e debilitato, tanta fatica, tante emozioni e tanto dolore per quel giorno.

Le ferite pulsavano.

Finì per addormentarsi a fianco di sua madre.

Giulio decise di uscire di casa.

Era piuttosto turbato dall’arrivo dello zio. Un uomo con un fare tenebroso ma ironico, sembrava sofferente e probabilmente era molto malato.

Giulio non aveva bisogno di altri carichi, ne aveva già abbastanza di suoi.

A scuola stava andando male, i professori lo trattavano come un povero coglione, incrementando la convinzione di esserlo che già coltivava da solo nell’intimo dei suoi pensieri e le canne lo stavano rimbambendo, ma almeno con quelle la realtà sembrava più morbida.

Aveva una gran voglia di fumare una sigaretta e prendersi una bella sbronza, forse era il caso di raggiungere gli altri.

L’ultima sera in cui si era ubriacato era finita con una bella dormita tra i bidoni dell’immondizia. In prossimità del coma etilico qualcuno gli aveva pure preso il portafogli. I suoi amici lo avevano lasciato lì da solo quindi non aveva idea di cosa fosse successo. In compenso l’aneddoto gli aveva fatto scalare la classifica di popolarità nel liceo. Ora aveva la fama di sbandato. O derelitto. Quella che piace tanto alle ragazze. Quando lo facevano gli altri sembrava che la cosa avesse molta presa, tutti riuscivano ad andare con qualche tipa.

A lui non andava mai bene. Non riusciva a concludere.

Si sentiva sempre in imbarazzo con loro. Sapeva di non essere poi così stupido, ma ogni volta che aveva la possibilità di parlare veniva prevaricato da qualcun altro più intrepido oppure, stritolato dalla timidezza e finiva per dire qualche cazzata e fare la figura del focomelico. Si sentiva fuori luogo ovunque e non riusciva a farsi notare. E dio solo sa quanto avrebbe voluto uno sguardo di Carlotta. Uno solo sarebbe bastato per farlo sentire in cima al mondo.

Quando durante le lezioni qualche professoressa lasciava la porta aperta della classe, Giulio rimaneva con gli occhi incollato sul corridoio sperando di vederla passare, sperando che almeno gli sorridesse, che lo notasse. Durante l’intervallo la seguiva da lontano, dissimulando tutto. Anzi, si metteva impettito nel cortile a fumare in una qualche ridicola posa grunge per sembrare sicuro di sé.

Carlotta invece era una ragazza realmente molto sicura di sé, lunghi capelli castani, lineamenti dolci ed un corpo atletico e formoso. Indossava spesso jeans e maglioni attillati girocollo che le facevano risaltare la pancia piatta e il morbido seno. Sorrideva sempre anche se, quando passeggiava da sola per tornare a casa, assumeva spesso un’espressione assorta. Giulio lo aveva notato incrociandola mentre lui era sull’autobus.

Spesso la sognava.

O fantasticava ad occhi aperti di come poteva cominciare qualcosa tra loro.

Aveva persino scritto una paginetta pensando a lei, l’aveva chiamata “Sogno”. Recitava questo:

Ti vedo con altri ragazzi senza rispetto per la tua persona, ti umiliano, si prendono gioco di te. Io ti sono accanto.

Solo tempo dopo mi confidi che non avresti voluto farti vedere da me in quelle circostanze. Reclini lo sguardo ferita dal ricordo. Non sapevamo chi fossimo ma già ci conoscevamo perfettamente.

Mi perdo nei tuoi occhi e finalmente sento quello che cercavo da una vita. In quel preciso istante capisco quello che voglio. Avvicino le labbra al tuo orecchio e le mie parole sono solo per chiederti se ti va di darmi un poco del tuo tempo per stare insieme a me.

Questa sera o quando vuoi, mi piaci.

Il tuo si è l’arcobaleno che colora la mia vita. Le ore d’attesa paiono secoli. Trascorro il tempo pensando a te, al momento in cui ti vedrò, alla mia voglia di abbracciarti e di baciarti. Mi immagino l’istante in cui ti vedrò venire verso di me; sorridente e meravigliosa come sei. Ti sento già tra le mie braccia, sento l’odore dei tuoi capelli e il calore della tua pelle sotto la mia. Sono trepidante ed euforico anche se il tempo non passa mai. Immagino e vivo ogni istante del nostro incontro centinaia di volte. Finalmente saremo io e te. Finalmente posso cominciare ad amare.

Il tempo clemente dopo millenni termina la mia attesa tramutando l’azzurro in crepuscolo. Sei di fronte a me, sei l’anima del mio cuore, la linfa del mio spirito. Ci stringiamo e ci teniamo per mano. Sto volando sopra ogni cosa perché da questo momento tutto è talmente piccolo da non darmi problemi, ci sei tu con me. Ci sediamo e io ti scosto i capelli per baciarti la fronte.

Mi sveglio. Mi sveglio. Sono sveglio. Mi sono svegliato. Capisco che nella mia vita manca qualcuno. Solo. Di nuovo solo.

Manchi tu, Carlotta.”

L’aveva scritta sopra un foglio svolazzante finito nel cassetto della sua scrivania. Ogni tanto se lo rileggeva con nostalgia.

Non c’era nulla di grunge in tutto questo.

Ma anche quello era lui.

Camminando giunse al solito ritrovo della compagnia. Gli amici avevano già cominciato a rollare.

Si prospettava una giornata impegnativa.

Obiettivo: fondersi.

Informazioni su Jeremy Merrick

L'apparenza mi penalizza. L'umore mi manda sull'altalena. Le prugne al bagno.
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